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A sessant’anni dal conseguimento della laurea in Giurisprudenza è stata pubblicata, a cura del collega Gaetano Armao, la tesi di laurea di Giovanni Falcone sul tema “L’istruzione probatoria nel diritto amministrativo”.

Dai prestigiosi contributi che accompagnano la pubblicazione della tesi, con l’introduzione della ministra Marta Cartabia, emergono con nitidezza la cifra identificativa dell’uomo e il suo personale rapporto con quei cambiamenti storici di cui lui stesso fu parte attiva ed artefice sino a sacrificare la sua stessa vita: l’etica austera che ne ispirava i comportamenti, la consapevolezza di essere un uomo dello Stato al cui servizio aveva dedicato il suo impegno professionale, l’ampio respiro culturale e non solo giuridico, la poliedricità della sua formazione, la capacità di interpretare la realtà, sempre con serenità ed equilibrio, libero da pregiudizi ideologici, sempre attento ad evitare sterili e strumentali polemiche, ma pronto a difendere strenuamente le sue idee, i suoi assunti, anche se non condivisi, oggetto non di rado di aspre ed ingiuste critiche, il più delle volte pretestuose. Commovente è il ritratto dell’uomo nei ricordi della sorella Maria: brillante e ironico nella conversazione, amante dello sport e della musica classica, un uomo fondamentalmente gentile, in cui la gentilezza era una forma di eleganza istintiva, da non confondere, quindi, con la debolezza.

A questi contributi io non potrei, in verità, aggiungere niente di nuovo. Ed è questa la ragione per cui ho ritenuto di concentrare questa breve riflessione sul libro in sé, sulla sua “anima”, perché i libri, come diceva lo scrittore catalano Carlos Ruiz Zafón, possiedono un’anima, in cui si proietta l’anima di coloro che lo hanno letto e che da esso hanno tratto insegnamenti, ammonimenti, speranze, sogni. Ricordo bene il giorno in cui Gaetano Armao mi ha fatto dono del libro. Sfogliandolo, ho subito avuto chiaro che non potevo rinviare la lettura alle vacanze estive; dopo averlo letto, ho capito che si tratta di un libro che non ha scadenza, perché si proietta nel futuro. La mia anima aveva incrociato l’anima del libro.

Guardare al senso più profondo del libro consente anche di cogliere bene il significato delle parole di Falcone: «non si rinvia a giudizio senza prove granitiche», espressione di un principio in cui Giovanni Falcone credeva fermamente, ma che oggi, come sottolinea in un articolo pubblicato sul quotidiano la Repubblica (17 giugno 2021) l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, è stato superato da una legge diversa da quella vigente al tempo, quello del maxiprocesso, in cui venivano pronunciate. Il pubblico ministero non può infatti chiedere l’archiviazione del procedimento pur in assenza di quelle “prove granitiche” di cui parlava Falcone. Se lo facesse, sottolinea Pignatone, il Gip avrebbe il diritto-dovere di ordinargli di procedere. Oggi infatti per la richiesta del rinvio a giudizio è necessario che lo stesso abbia elementi “sufficienti” per sostenere l’accusa in dibattimento.

Ecco perché il libro va letto per i valori che esso custodisce, per il significato profondo che ha e può avere non soltanto per il nostro presente, e dunque per quei cittadini, molti dei quali hanno vissuto quegli anni terribili, conosciuto, apprezzato e pianto l’uomo e il magistrato Falcone, ma, anzitutto, per l’insegnamento che dalla sua lettura possono trarre i giovani di oggi che non hanno vissuto quegli anni. Non hanno conosciuto l’uomo se non attraverso la narrazione che accompagna annualmente le commemorazioni in occasione della ricorrenza della strage di Capaci o tramite il ricordo tenuto vivo dalle iniziative della Fondazione Falcone, guidata dalla sorella Maria, iniziative dirette non soltanto a custodirne e tramandarne la memoria, ma volte ad educare i giovani a quei principi che per Giovanni Falcone erano irrinunciabili, e che avevano sempre ispirato la sua attività: la legalità e la lotta senza compromessi alla criminalità organizzata. Una lettura, possibilmente guidata, di questo libro può arricchire il patrimonio umano, civile e culturale dei nostri giovani, aiutarli a recuperare il senso dello Stato, a fare di loro cittadini di una Sicilia migliore, questa era la speranza che animava anche l’azione di Giovanni Falcone.

I giovani sono il nostro futuro, il motore del cambiamento della nostra società. Sono questi giovani, che hanno pagato e pagano il prezzo più alto di ogni crisi e, in particolare di quella attuale, che guardano disincantati alle istituzioni e con sospetto a quella classe politica che ormai da tempo sembra essersi allontanata dalla politica di cui parla Aristotele, quella che dall’etimo del termine, definisce la “politica” come amministrazione della “polis” per il bene non di pochi sodali o amici privilegiati, ma di tutti, e quindi come “servizio” ai cittadini, dove il termine cittadino va inteso in senso ampio, comprensivo di tutti coloro che vivono nel territorio italiano. Definizione che richiama quei principi costituzionali, di legalità, certezza, uguaglianza, ragionevolezza, imparzialità, che dovrebbero, il condizionale è d’obbligo, ispirare sempre la funzione amministrativa: ma anche l’esercizio degli altri poteri, il legislativo e il giudiziario, che non possono prescindere da questi principi. E di questo era ben consapevole Falcone che a questi principi ha costantemente ispirato la sua attività di giudice istruttore. Chi legge nei giornali le vicende che hanno coinvolto molti magistrati, gettando ombre sulla regolarità di processi importanti nella vita del paese è portato ad estendere il giudizio di disvalore a tutta la magistratura, a sentire sfiducia nell’attuale sistema giudiziario se non è culturalmente attrezzato, in grado cioè di discernere, di capire che si tratta di casi estremi, anche se hanno macchiato l’immagine e il prestigio dell’ordine giudiziario.

Livatino, Falcone, Borsellino e gli altri magistrati massacrati dalla mafia sono visti come un’eccezione, laddove, al contrario, sono invece numerosi i magistrati che svolgono la loro funzione “con disciplina ed onore” (art. 54, Cost.), fedeli servitore dello Stato e, dunque, di quel “popolo” in nome del quale “la giustizia è amministrata” (art. 101, Cost.), senza perseguire fini utilitaristici o clientelari, ossia fini diversi da quelli ai quali sono chiamati dalla loro funzione. In questo attuale contesto, che non sembra diverso da quello in cui svolgeva la sua attività Giovanni Falcone, in cui crisi delle istituzioni, crisi della politica, crisi dell’ordine giudiziario, crisi della legalità, crisi morale, si vengono a compattare in un perverso gioco a incastri, la lettura di questo libro ben può rappresentare, soprattutto per i giovani, una fonte inestimabile di stimoli per gli insegnamenti, gli ammonimenti e i messaggi di speranza che se ne possono trarre.

Funzione che il libro potrebbe svolgere al meglio, soprattutto se i docenti ne illustrassero i contenuti in tutte le classi della scuola primaria e secondaria dove finalmente è stato introdotto, con la L. n. 92/2019, l’insegnamento dell’educazione civica. Un contributo didattico di questo genere che lo includesse fra la spiegazione della Costituzione, delle istituzioni europee, delle tematiche più attuali (cittadinanza attiva e digitale sviluppo sostenibile, diritto alla salute, ecc.) fornirebbe ai ragazzi, fin dai primi anni della formazione scolastica, gli strumenti per diventare consapevoli e responsabili futuri cittadini di una società fondata sui valori della democrazia, della partecipazione alla vita civica, culturale e sociale delle comunità, del pluralismo, del rispetto delle regole, dei diritti e dei doveri, dell’uguaglianza, della solidarietà e dell’accoglienza.

«Andare a scuola significa andare verso l’universo del libro» (Recalcati).

Ecco perché è importante libri di questo genere vengano conosciuti nelle scuole. La formazione di una persona e, soprattutto, di un giovane, continuerà ad avvenire anche attraverso i libri. La perdita di fisicità del testo, effetto della digitalizzazione, non toccherà lo spirito del libro. La sua “anima” sarà salva, perché il libro è la “narrazione di un’esperienza” (Recalcati). Guardiamo, allora, alla narrazione dell’esperienza dello studente Giovanni Falcone e agli insegnamenti che ne può trarre lo studente che deve oggi apprestarsi a scrivere la tesi di laurea. Per molti, che non guardano al futuro, ma soltanto alle pressanti esigenze del presente, questo può essere un passaggio fastidioso, soprattutto se si devono sostenere gli ultimi esami. La tesi è spesso un elaborato frettoloso, privo di spunti di originalità, del quale si perderà qualsiasi traccia, non rimanendo nulla nel patrimonio culturale e scientifico dello studente. Non sarà di alcun supporto nel futuro percorso professionale, come, invece, lo è stata per lo studente Falcone.

La tesi di laurea di Giovanni Falcone – l’impostazione metodologica; la sistematica sicura; il rigore dell’analisi sull’istruzione nel processo amministrativo, argomento sul quale le norme nel momento in cui lo studente preparava il suo elaborato erano scarse (come lo stesso Falcone segnala già all’inizio della trattazione); la linearità delle argomentazioni, basate sulla riflessione circa la “natura del processo amministrativo”; la costruzione dei rapporti tra le parti e il giudice; la chiarezza del linguaggio; l’originalità delle conclusioni – tutto questo potrà aprire allo studente, nuovi e stimolanti scenari, spronandolo a riflettere sull’importanza stessa della stesura della tesi, quale momento di completamento della sua carriera universitaria, misura delle conoscenze effettivamente acquisite e della metamorfosi che ha accompagnato il suo percorso accademico.

Nel volume lo studente potrà trovare anche il filo che unisce il lavoro per l’elaborazione della tesi dello studente Falcone all’attività che successivamente svolgerà nel processo penale, come giudice istruttore negli anni più fecondi della sua vita professionale, per mettere in luce il fatto storico dell’associazione di tipo mafioso, ormai di livello internazionale, che coinvolgeva centinaia di indagati. Il filo rosso che lega il lavoro universitario alla futura attività professionale è la ricerca e l’accertamento della “verità” (art. 27 del regolamento di procedura del 1907). L’istruzione probatoria che, nel processo penale porta alla conoscenza del fatto di reato, nel processo amministrativo procura “al giudice la certezza, morale o legale intorno agli elementi di fatto, che servono di fondamento alle pretese delle parti” (Benvenuti, della cui monografia lo studente Falcone ha tenuto conto, pur discostandosene in alcuni passaggi, anche cruciali del suo elaborato). Falcone era ben consapevole del fatto che nessun sistema istruttorio poteva e può garantire in assoluto l’accertamento della verità, anche se la verità va sempre e comunque ricercata, rimanendo l’obiettivo principale dell’istruttoria nel processo amministrativo e nel processo penale, al di là delle enormi differenze esistenti tra l’istruttoria nell’uno e nell’altro tipo di processo.

Un obiettivo al quale le parti concorrono con un contributo che Falcone valorizza: il principio del contraddittorio che, quale espressione del principio di uguaglianza, ha un valore in sé. Verità, certezza, che, in ogni caso, non possono che discendere dal fatto in sé, indipendentemente dalla personalità del suo autore, o da condizionamenti esterni. Ed era questa cultura della prova, alla base della sua ricerca meticolosa e scrupolosa di elementi probatori solidi che lo portava ad escludere un processo alla “politica” in mancanza di riscontri certi e incontrovertibili, pur essendo pienamente consapevole della contiguità mafia – politica. Fu per questo che subì ingiuste accuse da alcuni esponenti politici e delle istituzioni, da personalità del mondo della cultura: accuse dalle quali Egli si difese sempre con fermezza, contestando l’uso politico di mere insinuazioni e supposizioni prive di sostegno e di qualsiasi riscontro probatorio.

Leggendo il libro mi è tornata alla mente la “Storia della Colonna Infame”, che Falcone sicuramente conosceva bene, traendone insegnamenti nell’esercizio della sua funzione. Tra tutte le interpretazioni che di quella terribile vicenda processuale sono state date, quella di Alessandro Manzoni, che indaga i profili soggettivi della responsabilità dei giudici, penso che risponda di più alla sensibilità di Falcone. I giudici, pur persone “stimatissime e probe”, scriveva Manzoni, hanno giudicato in mancanza di prove “certe” e “inconfutabili”, condannando a morte uomini innocenti, trasgredendo così “le regole ammesse anche da loro”.

Il volume implicitamente ci consegna anche un altro principio ispiratore dell’attività di Falcone, quello secondo cui la “giustizia deve essere giusta”. Ma la giustizia può essere “ingiusta”? I giudici non sono soggetti soltanto alla legge (art. 101, co 2, Cost.)? E se applicano la legge, come può essere ingiusta una decisione? E la domanda, ricordava la ministra Marta Cartabia nel corso di un incontro sul tema “Una parola di giustizia. Dialogo tra Marta Cartabia e Benedetta Tobagitenutosi a Taormina (20 giugno 2021) nell’ambito del Festival Taobuk, che si sente rivolgere spesso dagli studenti.

Ma, come è ben noto, non di rado le leggi sono oscure, indeterminate, incomprensibili, sovrapponibili, contraddittorie, il che si traduce spesso in una delega in bianco per quanti sono chiamati ad applicarle, in primo luogo i magistrati. I contrasti giurisprudenziali, l’imprevedibilità dell’azione giudiziaria, gli errori che a volte emergono dopo anni dalla pronuncia della sentenza, disorientano il cittadino e, conseguenza più grave, generano sfiducia nell’istituzione giudiziaria. Una sfiducia che si traduce in un sentimento di diffidenza e di ripulsa verso tutto ciò che è pubblico, acuendo, inevitabilmente, la crisi della giustizia e, di conseguenza, la delegittimazione della magistratura.

Di questo Falcone era ben consapevole. Ecco perché aveva un’attenzione particolare ai fatti nella loro oggettività, senza contaminazioni soggettive, al ruolo del giudice nella ricerca di un equilibrio tra prova e giudizio. Equilibrio necessario per evitare, come diceva Giolitti, che la legge venga interpretata per gli amici e applicata ai nemici. Se il libro ha un significato in sé questo risiede anche nell’ammonimento rivolto ai lettori, ma soprattutto ai giovani, sulla “solitudine”, quale condizione imprescindibile della vita umana, che chiunque può sperimentare in ogni momento. Per il magistrato è la condizione normale. Chi giudica è solo con la sua coscienza, anche quando fa parte di un collegio.

Giovanni Falcone ha sperimentato anche la solitudine che deriva dall’isolamento in cui si venne a trovare, paradossalmente, dopo lo storico esito positivo del maxiprocesso, che aveva posto in luce le sue grandi capacità professionali e contestualmente aveva attirato su di lui invidia e gelosia. Subito dopo fu oggetto, infatti, di polemiche aggressive, da ex amici ed ex sostenitori, da esponenti di quasi tutti i partiti politici, da pezzi della stessa magistratura, da intellettuali. Fu accusato di protagonismo, lettere anonime spregevoli mettevano in discussione anche la dignità e l’onestà dell’uomo, oltre che del magistrato. Falcone fu lasciato solo. Non sappiamo come abbia vissuto questa solitudine nel profondo della sua anima, ma sappiamo con certezza che nonostante tutto è andato avanti con il suo lavoro.

Sapeva di essere stato condannato a morte. Aveva paura? Si aveva paura, una paura basata su fatti reali, e non si vergognava ad ammetterlo, come fece nel corso di un’intervista: “importante è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, ma incoscienza”. Anche questo è un messaggio di cui tutti noi dobbiamo essere grati a Falcone. Un uomo che sapeva convivere con le sue fragilità e debolezze ed anche sconfiggerle, ma proprio per questo deve essere ricordato non nella dimensione epica del “mito”, ormai leggendario e distante, ma come un esempio concreto, un “faro”, dotato di una luce potente dentro di sé, così forte da contrastare ogni forma di tempesta, ogni forma di solitudine che ha attraversato nel corso della sua breve vita.

Chi leggerà questo libro, non importa se oggi, fra dieci o cinquant’anni, ne incrocerà l’anima.